martedì 24 settembre 2013

Meditare al mare

Outer Banks, North Carolina

"Meditation is not to escape from society, but to come back to ourselves and see what is going on. Once there is seeing, there must be acting. With mindfulness, we know what to do and what not to do to help." - Thich Nhat Hanh

Noi a mare si va in autunno. Almeno da quando abitiamo negli Stati Uniti.
Avendo impiegato tutte le ferie estive per girare gli States sulla costa occidentale, pur passando per la solare California (e avendo fatto anche l'esperienza della Florida mesi prima), le nostre puntate a mare non sono state l'oggetto principale della nostra attenzione.
Lontani i tempi nell'amata Sicilia, dove sono nata e cresciuta tutt'uno col mare: qui in America è tutto più grande, comprese le acque. Qui c'è nientemeno che l'oceano e ancora non abbiamo familiarizzato più di tanto, io e lui. Il profumo però è quello che ricordo, lo stesso del mio Mediterraneo, salato e liberatorio.

Questa volta abbiamo guidato cinque ore per visitare le Outer Banks, chilometri di sabbia (poco più di una striscia) che disegnano la costa della North Carolina. Sulla via del ritorno, ci siamo fermati anche a Virginia Beach, decisamente più trendy, se paragonata a quanto visto nella Carolina del Nord.
Toccata e fuga, insomma, ma abbiamo goduto del sole del sabato sulla spiaggia di Kitty Hawk (dove speravo di vedere i delfini ma quel giorno dovevano essere tutti in sciopero!) e la domenica abbiamo fatto il bagno, sì, di pioggia però.

Il nostro bagno in piena regola (con il solo piccolo dettaglio che eravamo vestiti e quindi il primo gabinetto pubblico a portata di mano è diventato il nostro spogliatoio improvvisato) avveniva in quel di Kill Devil Hills (mai nome di città fu più portatore di sfiga): la ridente cittadina è stata infatti protagonista di un evento storico per cui le Outer Banks vengono oggi ricordate. Stiamo parlando nientemeno che del primo volo in aeroplano della storia e di quei geniacci dei fratelli Wright.
Sulla pianura in cui i due fratelli fecero i loro esperimenti, fino ad arrivare a compiere un volo di ben 59 secondi, oggi ci sono un museo, le pietre miliari dei loro progressivi record (prima di arrivare al fatidico quasi-minuto) e, su una collina che sovrasta l'intera pianura, un monumento che io definisco "all'americana". Cioè grosso, fallico e spartano.
Per il resto, le città lungo le Outer Banks non ci sono. Davvero, non esistono. Ho provato a sforzarmi per identificarne una ma quello che si presenta agli occhi è, per l'appunto, una striscia lunghissima di strada contrassegnata da pietre miliari (quelle vere, per capire a che miglio sei), con case allineate una dopo l'altra e ogni tanto spiazzali con ristoranti e negozi (in stile americano, ovviamente).

Ma c'è qualcosa che rende speciali le Outer Banks, o almeno le ha rese speciali per me.
Se si cerca un posto dove l'obiettivo principale è rilassarsi in riva all'oceano, lontano dalla movida cittadina, ammirando casette di legno una dietro l'altra a ridosso della spiaggia (molte su palafitte, in modo da vedere l'oceano), questo è il luogo perfetto.
Per me lo è stato in spiaggia, meditando accanto a mio marito con il suono dell'oceano in sottofondo, al tramonto. E sono stati delfini, mare nostrum, famiglia, onde interiori e creatività, in volo come fosse la prima volta.

giovedì 19 settembre 2013

India: la parola al cuore

Gange, Varanasi

C'è un posto del mondo che ha scioccato il mio sistema nervoso così brutalmente da zittire la mente e scaldare il mio cuore fino a farlo parlare: l'India.

Nel corso del mio viaggio nel nord dell'India, i cinque sensi sono stati talmente sovraccaricati da togliermi le parole di bocca per un po', lasciandomi sospesa sulle pagine bianche del consueto quaderno che porto sempre con me per scrivere di qualunque cosa mi venga in mente.

A cominciare dall'udito, la mia misofonia ha dovuto da subito fare i conti con i rumori del traffico nelle strade: tuc-tuc, taxi e auto spericolate, biciclette, motorini, carri trainati da mucche, cavalli e cammelli, venditori ambulanti che urlano la propria merce ma soprattutto un costante concerto di clacson.


New Delhi

L'olfatto, neanche a dirlo: l'odore del cibo per strada si mischia a quello degli escrementi delle sacre mucche.



Varanasi

Il gusto: adoro la cucina indiana, ma provate a mangiare per quasi un mese cibo piccante e poi raccontatemi del vostro colon senza scendere nei dettagli.
Il tatto: sensazioni contrastanti attraversano ogni poro della pelle. Dal solletico delle mosche che si poggiano ovunque sul corpo alle rughe di un elefante e le mani ruvide di un bambino, dal prasad caldo che si mangia con le mani ai freddi soldi che offri nelle gurdwara del Punjab, dal freddo dell'alba sul Gange a Varanasi che punge sul viso al gelido pavimento sotto i piedi scalzi al Tempio d'Oro di Amritsar alle tre del mattino, stringendosi ad altri sconosciuti essere umani per trovare un po' di calore.

Tempio d'oro, Amritsar





La vista, infine. Si può aiutare ogni singolo essere umano sulla Terra, evitandogli di soffrire la fame?

Jama Masjid, moschea a New Delhi



L'India fa questo: ti fa accettare quello che non puoi cambiare, ti dà il coraggio di guardare dentro di te e trasformare invece quello che puoi, aumentando la tua tolleranza e lasciando fluire la tua vera identità. E la magia accade: il tempo si ferma, la creatività fluisce più che mai proprio lì dove ti sentivi inseguito, perseguitato, appesantito.

Ai rumori ci si abitua, diventano parte del tuo silenzio, dopo un certo punto. Dopo un po' non fai più caso all'odore di sudore, escrementi, spezie, smog. Tutto viene processato, la mente si arrende sotto la pressione di una iper-stimolazione sensoriale e il cuore ha la possibilità di parlare: verità.

A Jaipur, la città rosa, le parole di un bramino: a suo dire (non è un dato ufficiale, certo) il numero di persone che muoiono di fame in India è ridicolo se comparato agli altri motivi di decesso, perché nessun Indù rifiuta di dare qualcosa da mangiare a chi bussa alla porta. Ne va del loro karma.
Dare incondizionatamente: la porta sempre aperta del cuore, la serratura da violare per lasciare accedere e accadere pace, felicità, creatività. Una chiave facile, così a portata di mano, eppure tanto invisibile nella quotidianità del comfort e delle assuefazioni, delle ipnosi che ci auto-infliggiamo.

Jal Mahal, il Palazzo sull'Acqua, Jaipur
Palazzo dei Venti, Jaipur

Taj Mahal, Agra
Sarnath, città dove il Buddha fece il suo
primo discorso dopo l'illuminazione

La parola al cuore, in India. Ai ghat sul Gange per le abluzioni sacre e i riti funebri oppure solo per lavare i panni, a piedi nudi e capo coperto al tempio d'oro di Amritsar, nei silenziosi templi buddhisti dove ritrovi te stesso, nelle moschee e nell'invito sonoro del muezzin alla preghiera del mattino che ti butta giù dal letto, nei pellegrini dagli abiti dei colori accesi del Rajasthan, nei poveretti che mendicano lungo la strada, nei bramini adolescenti che celebrano i rituali, nei Sikh che mangiano tutti insieme nella gurdwara, nel palazzo dell'amore ad Agra perché due anime restino unite per sempre, nelle pulci condivise da una scimmia con il suo vecchio amico mendicante, nella maglietta di chi conduce un tuc-tuc e recita la preghiera di Madre Teresa di Calcutta. Tante voci, tante parole, tutte pagine di uno stesso libro.



Uno dei ghat per le abluzioni nel Gange, Varanasi

Celebrazione serale sul Gange, Varanasi


Un ghat per riti funebri e cremazione a Varanasi

Comunica dal cuore, sembra dirti l'India, e le parole saranno sempre quelle giuste, non importa quale forma abbiano: la tua verità è espressione di chi sei, la creatività è dentro di te, la gentilezza nel raccontarsi è uno dei poteri di connessione più grandi che abbiamo.
In qualunque luogo del mondo abitiamo, qualunque bella religione sia il nostro confortevole rifugio: dov'è casa se non nel proprio cuore?


Gurdwara Sikh al Tempio d'oro, Amritsar

Jama Masjid, moschea a New Delhi
Statua del Buddha a Sarnath
Preghiera cristiana su t-shirt, New Delhi


Preghiere induiste sul Gange, Varanasi




mercoledì 11 settembre 2013

Deeper

National Harbor, Maryland

Cosa c'è sotto?

Sabbia e acqua, insieme nello stesso contenitore. Piccole onde, delicati tentativi di muovere il substrato, il subconscio, la subordinazione.
Cercando stimoli, sentire che eppur qualcosa si muove: vivere in un paese straniero, praticare yoga anche quando sei sul pianeta freddo e umilmente e devotamente insegnarlo, valutarsi babysitter per un attimo, campeggiare, riscoprire Old Town, ricordarsi di sé nelle arti marziali, smettere di giudicare la professionalità della scrittura su Internet, salutare persone, osservare l'orizzonte e accorgersi di non guardare.

Sott'acqua, i sogni, in profondità. Musica, in superficie, mani su quel mio pianoforte di cui premo la sordina col piede.
Leggo la storia di qualcun altro, mantenendo le distanze, oppure lasciandomi ispirare. Scrivo la mia storia, dal punto più profondo della terra, dalla cima più alta nel cielo.
Danzo, sentendo che ogni movimento del mio corpo dice qualcosa all'Universo e l'Universo risponde.

Sentire che la vita è lì e ti richiama a sé, persino quando muori, resisterle e poi arrendersi.
Sorge il sole, tramonta, risorge. Lasciandoti lì, ancora una volta, a guardare.

Come sopra, così sotto. Quello che c'è in mezzo, un'onda dopo l'altra, è adesso il mio mistero.



National Harbor, Maryland

venerdì 6 settembre 2013

Life

Waterfront, Old Town Alexandria


Silenzio.
Riesco a sentire solo le cicale sotto quest'albero, da questo prato lungo il Potomac.
Il cellulare silenziato anche lui, un libro intitolato "Committed", l'assenza di un telo sotto il sedere, direttamente sull'erba fresca.
L'assenza.
Sentire il sottofondo, schiacciante, eppure perdersi nei passi, nel respiro, in ciò che gli occhi vedono, ma tutto passa inosservato. Non sono i sensi fisici a dominare.
Piccoli messaggi sparsi qui e lì. Un angelo Thun che abbraccia un cucciolo, un quadro di Possenti dove noti qualcosa che prima non c'era, un signore a passeggio con due Labrador che ti rivolge la parola dal nulla, per dirti quanto è bella la giornata.
Un mazzo di fiori davanti a una foto, l'unica che hai. Ricordi che ti toccano il cuore e poi ti lasciano, spinti via dal dolore, nell'attesa che si depositino nel quieto centro e lì restino, in pace. Oggi in casa non si sta, oggi fermi non si sta.
La vita.
Sentirla gridare più che mai, quando qualcuno l'ha lasciata. Volerla concepire daccapo, sotto quest'albero, un'ondata di vibrazioni al tremore di una foglia che il vento potrebbe staccare dal ramo. Ogni perdita un raccolto, ogni morte una nascita, ogni esalazione un'inspirazione che segue.
Convenzioni, mi dice qualcuno. Le priorità mischiate nel caos, tutto nello stesso mazzo di carte, perché la mente è una brava giocatrice e a volte bara pure.
E forse è così, forse Dio ci ha messo qui a disporre del numero di respiri che ci è dato, e d'altronde siamo noi a decidere come usarli. Il nostro tempo è degli altri quando lo vogliamo, ma sempre nei limiti di questa pelle. E dell'ancora inesplorato teletrasporto.
Lungo, lento, profondo il respiro. Solo un momento, questo, nell'eternità dell'anima.
"Committed", leggo sulla copertina del libro. Una storia d'amore. E mi ricordo delle mie intenzioni, dell'impegno e del sacrificio, della mia missione.
Dopotutto, sono l'anima che sono.




lunedì 2 settembre 2013

Buon viaggio, amico mio



Ti ricorderò sempre così, con quel sorriso e quella coda che roteavi come un'elica. Con i tuoi giochi semplici: ci portavi pigne e pietre raccolte in giardino, combattuto tra la voglia matta di fartele lanciare per inseguirle oppure tenerle in bocca e farle tue per sempre. Con le tue feste, ogni volta che dopo tanto tempo mi rivedevi. Con la tua zampa su una gamba per chiamarci, o contro una porta, per chiederci di entrare in casa. Con il tuo cuscino preferito, tanto amato da volertici accoppiare. Con quello sguardo che diceva tutto, senza bisogno di parole. Con le tue manifestazioni d'affetto sempre e comunque: alzandoti a fatica per camminarci dietro, mangiando anche quando stavi male pur di farci contenti, mettendoti da parte in silenzio in caso di tensione per non disturbare, mettendo il muso sotto il mio braccio quando mi hai visto piangere.

Mi hai insegnato l'amore incondizionato, mi hai insegnato come si possa tenere duro ed essere sempre gioiosi e contenti nonostante la malattia e la vecchiaia, mi hai insegnato a godere di ogni piccola cosa del mondo. Dopo undici anni te ne sei andato, il nostro cuore spezzato in mille parti, ma in ogni pezzetto ci sei e sempre ci sarai.

Grazie di tutto Esar, amico mio, piccola grande anima. Che la pura luce dentro di te guidi il tuo cammino, ovunque tu ora stia correndo felice.